L’oggetto transizionale

(di Manuela Tartari)

Riproponiamo un articolo già pubblicato sul bollettino dell’Istituto italiano di micropsicoanalisi (n. 4, 1987) della collega Manuela Tartari, scomparsa prematuramente nel 2020. Micropsicoanalista e antropologa si è sempre interessata alla psicoanalisi dell’età evolutiva. Negli ultimi tempi ha scritto e pubblicato alcuni lavori sul trauma psichico ricercandone le radici nella vita intrauterina. La ricordiamo con affetto, grati degli insegnamenti che ci ha dato.

Donald W. Winnicott descrive l’oggetto transizionale come un oggetto o un’attività che, senza essere fusionale, anzi, necessitando per la sua conquista l’avvenuto riconoscimento della separazione, richiama al bambino la condizione di fusione con la madre.

Nello stesso momento in cui rappresenta una situazione indifferenziata, la fusione, e quindi è esso stesso un oggetto parzialmente indifferenziato, l’oggetto transizionale è ritenuto da Winnicott separato dal corpo, definibile come un “non me”. Il bambino lo percepisce come un possesso che proviene dall’esterno e che lui stesso ha creato.

Lo possiamo così pensare come un tentativo, parzialmente riuscito, di separarsi da un oggetto fusionale (la madre) e contemporaneamente di conservarne un attributo percettivo (ad esempio l’odore, la morbidezza) tramite il quale mantenere la relazione con un oggetto sostitutivo, anche inanimato.

Winnicott pone come condizione per l’uso dell’oggetto transizionale, la presenza nel bambino di un oggetto interno non troppo persecutorio, presenza garantita, a suo parere, da una madre “sufficientemente buona”, in grado cioè di soddisfare i bisogni del figlio, percepiti tramite identificazione.

In altri termini, assegna alle cure della madre-ambiente il compito di permettere al bambino un armonioso sviluppo della personalità ed evitargli l’instaurarsi di patologie. La psicosi viene così definita “un disturbo da deficienza ambientale”.

Senza negare la fondamentale importanza delle cure materne nello sviluppo infantile, ho l’impressione che la concezione di Winnicott circa l’eziologia delle patologie psichiche, rischi di essere riduttiva, minimizza, infatti, il ruolo dell’aggressività e trascura il concetto di pulsione di morte.

Vorrei riprendere, a tale proposito, l’ipotesi di “madre sufficientemente buona” e fare alcune considerazioni sul meccanismo d’identificazione che permette alla madre di “sentire” i bisogni del figlio. Sappiamo che il meccanismo identificatorio, messo in atto dalla madre, è il risultato di un processo, apparentemente regressivo, tramite il quale la donna rivive nel figlio la propria prima infanzia. S’identifica cioè a quello che nel figlio rievoca le sue esperienze neonatali. Entrano qui in gioco, dunque, tutte le dinamiche, ambivalenti, del rapporto di quella donna con la propria madre, e, a sua volta, della madre con la propria madre e così via. Proseguendo su questa strada si giunge a un punto in cui l’individualità materna perde significato e confluisce nel territorio della coazione a ripetere.

Si comprende dunque, come in tale contesto, più astratto di quello di Winnicott, sia estremamente arduo stabilire dove “finisca” la madre e dove “cominci” il figlio. Propongo di sostituire il termine “madre” con quello di “terreno”. Terreno biopsichico sul quale, a partire dalla gravidanza – vita intrauterina, si incontrano e scontrano i tentativi sessuo – aggressivi, regolati dalla ripetizione, messi in atto da ambedue i componenti della relazione. È su questo terreno che, secondo Fanti, le proiezioni – identificazioni materne vincolano quelle fetali.

Così, secondo la micropsicoanalisi, quando un bambino nasce, è fornito di uno specifico modo di reagire all’ambiente, determinato dalla sua filogenesi psicobiologica, e dal confronto di questa con le dinamiche intrauterine.

All’apparire dei fenomeni transizionali, interviene già, almeno parzialmente, una istanza psichica, l’Io, i cui meccanismi difensivi sono attivati per regolare gli squilibri omeostatici che la separazione dalla madre ha attivato.

Winnicott descrive come fenomeni transizionali non solo attività connesse all’uso di un oggetto esterno, ma anche un gesto, una tonalità della voce, eccetera. La funzione che egli attribuisce a tali fenomeni è la difesa contro l’angoscia depressiva.

Potremmo dire che tali difese utilizzano l’oggetto transizionale come utensile, che serve a vincolare la situazione di lutto. R. Gardini, che ha compiuto interessanti ricerche sull’oggetto transazionale, sostiene che l’angoscia depressiva nel bambino è particolarmente viva nel momento dell’addormentamento, perché il sonno rendendo flebili i legami percettivi con la realtà, precipita il bambino all’interno del suo mondo istintuale, sempre profondamente terrificante, anzi: “la più terrificante delle esperienze”. Durante il periodo dell’acquisizione della locomozione e del linguaggio il bambino, per far fronte al distacco dalla realtà, selezionerebbe, “per la propria rappresentazione, alcune parti del totale ambiente della madre, che egli è venuto a conoscere attraverso le proprie sensazioni corporee.” (Gardini, addormentarsi e distacco dalla realtà 1972)

Da tale selezione origina, secondo l’autrice, l’oggetto transizionale, come primo simbolo elaborato dal bambino, diretto precursore non solo del gioco ma dell’attività immaginativa e di pensiero. La Gaddini ritiene che la caratteristica atta a distinguere un oggetto transizionale da un uso non transizionale di uno stesso oggetto, sia il suo alto contenuto simbolico e scarso valore istintuale. Questa osservazione sembra in contrasto, almeno parzialmente, con le ripetute dichiarazioni di Winnicott, circa la “realtà” dell’oggetto transizionale. L’autrice prosegue il suo discorso con alcune considerazioni sugli auto-ritmi, che la spingono a ipotizzare la possibilità del bambino di evocare il ritmo prenatale della deambulazione materna. Vorrei aggiungere, per estensione al discorso dell’autrice, che le sensazioni infantili riguardanti la madre iniziano nel periodo intrauterino. Ciò suggerisce lo spostamento della possibilità di selezionare alcune parti o attributi materni, dal momento dell’acquisizione della locomozione e del linguaggio, a un momento decisamente anteriore allo sviluppo delle capacità di simbolizzazione. Ciò porta a ipotizzare che il contenuto simbolico non sia determinante nella definizione di oggetto transazionale.

L’esistenza di oggetti precursori a quello transizionale è stato evidenziato, tra gli altri, da Bollas. Bollas sostiene che le prime identificazioni “protooggettuali” del bambino si rivolgono alla madre, percepita non come un oggetto ma come un processo, un processo di trasformazione, di alterazione dell’esperienza di sé. In seguito alla separazione, il bambino sostituirebbe alla madre – ambiente altri oggetti – soggetti entrando così in “fase” transizionale, erede di quella trasformativa. Anche la madre, secondo questo studioso, deve subire un’esperienza di separazione che mitiga “il desiderio inconscio della madre di un bambino che sia il suo oggetto transizionale”. (L’oggetto trasformativo, 1980) Bollas dunque evidenzia una modalità di relazione oggettuale transizionale che si mantiene durante la vita adulta (in questo caso nella madre), alla quale si contrappone l’esame di realtà, favorito dall’elemento delusivo della separazione. Il suo discorso, anzi, si spinge oltre, nel postulare l’esistenza di una fase transizionale, la quale sarebbe superata, se ho compreso il suo pensiero, con la rinuncia all’onnipotenza fusionale, sempre in agguato e l’accettazione del mondo esterno. Quindi, il riaffiorare in un adulto di fenomeni transizionali, sarebbe un segnale di regressione; anche Winnicott postula il permanere di fenomeni transizionali nella vita adulta ma essi non vengono interpretati come elementi regressivi, piuttosto, dimostrano per l’autore che il soggetto ha mantenuto un contatto con “l’area dell’illusione”. Questi fenomeni investirebbero il territorio intermedio tra realtà psichica interna e il mondo esterno. Winnicott aggiunge: “ A questo punto il mio argomento si estende a quello del gioco, della creatività artistica, del sentimento religioso, del sognare ed anche del feticismo, del mentire, del rubare, dell’origine e perdita del sentimento dell’affetto, dell’assuefazione alla droga, del talismano, dei rituali ossessivi, eccetera”. (Gioco e realtà, 1983)

L’attaccamento all’oggetto transazionale e la permanenza di fenomeni transizionali sono verificati nel corso delle sedute lunghe e si spiegano come difesa attivata nei momenti di angoscia depressiva. Anche la fissazione a una situazione esistenziale, come una casa, un lavoro, una persona, può definirsi un fenomeno transizionale, dipendente dall’investimento sulla persona o situazione, il quale fa si che quest’ultima divenga il mediatore stabile con il mondo esterno e la sua perdita rinnovi i vissuti di separazione. Ecco perché preferisco parlare di fissazione all’oggetto transizionale, piuttosto che di regressione.

A questo punto è possibile sintetizzare le caratteristiche dell’oggetto transizionale ridefinendolo come mediatore tra il mondo immaginario e quello reale. In questa prospettiva, il soggetto compie un tentativo di impadronirsi del mondo reale, tramite la mediazione di un oggetto o situazione che compensa la rinuncia al narcisismo primario. L’oggetto transizionale è quindi il rappresentante esterno sul quale si vincola la relazione con un’immagine interna. Le rappresentazioni degli oggetti interni vengono proiettate su una situazione esterna e reintroiettate, trasformate meno dalla situazione esterna.

Dato che vincola un’attività di fantasia, penso che le radici dell’oggetto transizionale si colleghino al concetto micropsicoanalitico d’immagine. Darò quindi la definizione di immagine così come l’ha elaborata Nicola Peluffo: “L’immagine è la forma che organizza l’insieme degli elementi (rappresentazioni ed affetti) provenienti da canali sensoriali diversi e che rende possibile la percezione della relazione interiore con l’oggetto; la forma dell’insieme degli elementi che permette di riconoscere un oggetto pulsionale interiorizzato. Tale forma può mutare e le vestigia della relazione con l’oggetto manifestarsi attraverso uno o più elementi dell’insieme. In ognuno degli elementi può concentrarsi totalmente l’affetto di cui originariamente era investito l’oggetto”. (Immagine e fotografia, 1984)

Tale definizione mi permette di descrivere l’oggetto transizionale come un rappresentante esterno che vincola la relazione con l’immagine del legame. Di fatto, l’immagine del legame è strettamente connessa a quella della perdita, da questo punto di vista, l’oggetto transizionale può essere anche considerato il luogo della perdita, non per nulla è rievocato nelle situazioni di tipo depressivo. Nei momenti in cui più viva si fa l’angoscia di separazione, il bambino, l’adolescente, l’adulto, ognuno secondo le sue caratteristiche modalità difensive, si “ripresenta” in modo mascherato una situazione di maggiore equilibrio omeostatico. La copertina, l’orsacchiotto, i compagni immaginari, una musica, un certo appartamento, eccetera non sono altro che sostituti atti a catalizzare l’investimento.

In qualità di sostituti conservano “memoria” degli investimenti pulsionali, le cui trasformazioni si sedimentano nella relazione con l’oggetto. Oggetto che sarà abbandonato e disinvestito dal bambino – come sostiene Winnicott – ma solo perché il soggetto si costruisce un rappresentante più completo per le sfaccettature dell’immagine del legame, che in quel momento gli si presentano.